Lo sviluppo della filosofia occidentale negli ultimi due
secoli ha avuto il risultato di isolare lo spirito nella sfera sua propria e di
scioglierlo dalla sua originaria unità con l’universo.
L’uomo stesso ha smesso di essere microcosmo e immagine del
cosmo, e la sua “anima” non è più la scintilla dell’
anima mundi.
Non abbiamo alcun metodo intellettuale per accertare se
questo atteggiamento sia giusto o sbagliato; sappiamo soltanto che non esiste
certezza alcuna di mostrare il valore di un postulato metafisico, come ad
esempio quello di uno spirito universale.
E’ possibile che il nostro spirito non sia altro che una
manifestazione percepibile di uno spirito universale, ma non lo sappiamo, né
vediamo la possibilità di conoscere se sia o non sia così.
La teoria della conoscenza è soltanto l’ultimo passo che ci
porta fuori dalla giovinezza dell’umanità, fuori da un mondo in cui figure
create dallo spirito popolano un metafisico cielo e un metafisico inferno.
Ci atteniamo alla convinzione che un organo della fede renda
l’uomo capace di conoscere Dio. E’ così che
l’Occidente sviluppò una nuova malattia, il
conflitto tra scienza e fede.
La filosofia critica della scienza divenne per così dire
negativo-metafisica, in altre parole materialista, in base a un giudizio
sbagliato; e la materia fu considerata una realtà tangibile e conoscibile.
La materia è un’ipotesi.
Dicendo “materia” creiamo realmente un simbolo di qualcosa
di ignoto, che può essere tanto spirito quanto qualcos’altro, che può essere
perfino Dio.
Contrariamente alla parola di Cristo, i fedeli tentano di
rimanere fanciulli anziché diventare come fanciulli, e si aggrappano al mondo
della fanciullezza.
Gesù è precisamente l’esempio lampante di un uomo che ha
predicato cose diverse dalla religione dei padri. Ma sembra che l’
imitatio Christi non includa il
sacrificio spirituale e psichico che Egli dovette sopportare all’inizio del suo
percorso senza il quale non sarebbe mai stato un Redentore.
Il conflitto tra scienza e fede equivale in realtà a
fraintendere entrambe. Il materialismo scientifico ha dato un altro nome al
supremo principio di realtà, presumendo di avere, così facendo, creato qualcosa
di nuovo e dia aver distrutto qualcosa di vecchio.
Ora chiamando il principio dell’essere Dio, Materia,
Energia, o altrimenti, non si è creato niente, si è soltanto barattato un
simbolo con un altro.
Il credente tenta di conservare, per ragioni puramente
sentimentali, uno stato spirituale primitivo.
Non è disposto a rinunciare al suo primitivo, infantile
rapporto verso forme create dalla mente e ipotizzate, vuole godere ancora della
sicurezza e della fiducia offertagli da un mondo controllato da genitori
potenti, responsabili e benevoli.
La fede può comprendere un
sacrificium intellectus, ma mai un sacrificio del sentimento.
Ogni pensatore onesto deve ammettere che tutte le posizioni
metafisiche, specialmente le professioni di fede, sono incerte.
Deve anche ammettere che le affermazioni metafisiche non
hanno conferma e accettare il fatto che non esiste prova alcuna della capacità
della mente umana di tirarsi fuori dalla palude attaccandosi ai propri capelli.
Il materialismo è una reazione metafisica contro
l’improvvisa intuizione che la conoscenza è una facoltà spirituale e, se
portata al di là dei limiti della sfera umana, una proiezione.
L’uomo occidentale deve soltanto deve soltanto capire di
essere rinchiuso nella sua psiche e che mai, neppure nella demenza, potrà
valicare quei confini; così pure deve riconoscere che la forma di
manifestazione del suo mondo o dei suoi dèi dipende in gran parte dalla sua
propria condizione mentale.
L’intelletto non è un
ens per se (ente a sé stante) o una
facoltà spirituale indipendente, bensì una funzione psichica e come tale
dipende dalle condizioni della psiche in quanto essa è un tutto.
Lo spirito è considerato qualcosa di soggettivo o
addirittura arbitrario.
Cominciamo a capire in che misura la nostra intera
esperienza della così detta realtà sia psichica: ogni pensiero, ogni sentimento
e ogni percezione sono composti d’immagini psichiche, e il mondo esiste
soltanto in quanto noi siamo capaci di produrne un’immagine.
Siamo così profondamente impressionati dal fatto di essere
imprigionati e limitati nella nostra psiche, che siamo addirittura pronti ad
ammettere che esistano in essa cose che non conosciamo e che chiamiamo
“l’inconscio”.
L’ambito apparentemente universale e metafisico dello
spirito si è così ristretto al piccolo cerchio della coscienza individuale, e
questa coscienza è influenzata nella misura più profonda dalla sua quasi
illimitata soggettività e dalla sua tendenza infantile-arcaica a proiettarsi e
illudersi senza freno.
Per compensarci della perdita di un mondo che pulsava col
nostro sangue e respirava col nostro respiro, ci siamo entusiasmati per i
fatti, per montagne di fatti che il singolo non può mai completamente
abbracciare.
Nessun cervello umano può abbracciare la totalità di questo
sapere prodotto in massa.
Nella sfera filosofica si può ancora trovare uno spirito
universale impersonale che sembra un residuo dell’originaria anima umana.
In Oriente non c’è conflitto tra religione e scienza poiché
nessuna scienza è fondata sulla passione per i fatti e nessuna religione
soltanto sulla fede; esiste una conoscenza religiosa e una religione che
conosce.
In Oriente l’uomo è Dio e redime sé stesso.
Gli dèi del buddhismo tibetano appartengono alla sfera della
illusoria separatività e alle proiezioni create dallo spirito, e tuttavia
esistono; ma, per quanto ci riguarda, illusione rimane illusione e perciò non è
assolutamente niente.
In Occidente soltanto una minoranza considera il fenomeno
psichico una categoria dell’Essere in sé, e per sé e ne trae le necessarie
conseguenze.
L’essere psichico è, in verità, l’unica categoria
dell’essere di cui abbiamo conoscenza diretta, poiché nulla può essere
conosciuto se non appare come immagine psichica. Se il mondo non assume la
forma di un’immagine psichica, è praticamente non esistente.
Di questo fatto l’uomo occidentale non si è ancora
perfettamente reso conto, salvo in poche eccezioni.
L’Oriente si basa sulla realtà psichica, cioè sulla psiche
come fondamentale e unica condizione dell’esistenza. Sembra che questa
conoscenza orientale sia piuttosto una manifestazione psicologica che il
risultato del pensiero filosofico.
Si tratta di un punto di vista tipicamente introverso in
opposizione all’altrettanto tipicamente estroverso punto di vista occidentale.
L’introversione se è permesso esprimersi in questo modo, è
lo stile dell’Oriente, un comportamento abituale e collettivo; l’estroversione
è lo stile dell’occidente. In Occidente l’introversione è sentita come cosa
anormale, morbosa, inammissibile.
In Oriente la nostra estroversione è stimata fallace
avidità, esistenza nel
samsara, la
più intima essenza della catena di
nidhana
che raggiunge il suo culmine nella somma di dolore del mondo.
L’Occidente cristiano considera l’uomo totalmente dipendente
dalla grazia di Dio o almeno della Chiesa, quale strumento terrestre di
salvezza esclusivo e sanzionato da Dio.
Invece l’Oriente, che crede nell’”autorendezione”, crede che
l’uomo è l’unica causa profonda del suo più alto sviluppo.
La psicologia occidentale è totalmente cristiana, come disse
Tertulliano “anima natulier cristiana” affermazione valida per l’Occidente non
come egli credeva in senso religioso, bensì in senso psicologico. La grazia
viene da altrove e comunque non da dentro di noi. Ogni altra opinione è eresia
pura. Così si comprende benissimo perché la psiche umana soffra un senso
d’inferiorità.
Chi osa pensare a un rapporto tra psiche e l’idea di Dio è
subito accusato di psicologismo o sospettato di morboso misticismo.
L’Oriente d’altra parte, tollera compassionevole questi
gradini spirituali “inferiori” sui quali l’uomo, nella cieca ignoranza del
Karma, è assorto nel pensiero del peccato o si tormenta la fantasia con una
fede in dèi assoluti che, se egli guardasse più a fondo, gli apparirebbero
soltanto come veli illusori tessuti dal suo stesso spirito non illuminato.
La psiche è perciò la cosa più importante, è il respiro che
tutto penetra, l’essenza di Buddha; è lo spirito di Buddha, l’Uno, il
dharma-kaya.
Tutta la vita fluisce da lui e tutte le diverse forme
apparenti ridissolvono in lui.
Per l’occidentale l’uomo interiore è infimo è quasi un
nulla; l’uomo è sempre in difetto davanti a Dio, egli cerca di propiziarsi
quella grande potenza mediante il timore, la penitenza, le promesse, la
sottomissione, l’autoumiliazione, le buone azioni e la lode.
La differenza tra gli occidentali egli orientali è tale che
consigliare loro di imitarsi a vicenda non sarebbe ragionevolmente né possibile
né opportuno.
Anziché mandare a mente le tecniche spirituali dell’Oriente e
imitarle in modo assolutamente cristiano mediante un atteggiamento forzato –
imitatio Christi! – sarebbe molto più importante scoprire se esista
nell’inconscio una tendenza introversa, simile al principio spirituale che
domina in Oriente. Saremmo allora in condizioni di edificare sul nostro suolo e
con i nostri medoti.*
Mi sembra che apprendiamo davvero qualcosa
dall’Oriente quando comprendiamo che la
psiche contiene ricchezze a sufficienza senza bisogno di esser fecondata
dall’esterno, e quando ci sentiamo capaci di svilupparci, con o senza la grazia
di Dio.
Ma non possiamo avventurarci in questa impresa ambiziosa
prima di aver imparato ad agire senzza orgoglio spirituale e autosufficienza
blasfema.
L’atteggiamento orientale ferisce i valori specificamente
cristiani.
Dobbiamo giungere ai valori orientali dall’interno e non
dall’esterno, dobbiamo cercarli in noi, nell’inconscio; scopriremo allora
quanta paura ci faccia e quanto siano violente le nostre resistenze, che ci
fanno mettere in dubbio ciò che all’Oriente appare così evidente, cioè che la
mentalità introversa è capace di auto liberarsi.
Molti negano totalmente l’esistenza dell’inconscio o
sostengono che esso consti soltanto gli istinti o i contenuti rimossi o
dimenticati che prima facevano parte della coscienza.
L’espressione orientale corrispondente al concetto di
mind si avvicina al nostro ‘inconscio’,
mentre il nostro concetto di ‘spirito’ è più o meno identico a consapevolezza.
Per noi la consapevolezza è impensabile senza un Io.
Se non esiste un Io non c’è nessuno che possa essere
consapevole di qualche cosa; perciò l’io è indispensabile nel processo di presa
di coscienza.
Alla mente orientale invece non riesce difficile immaginare
una coscienza senza un Io.
La coscienza è ritenuta capace di trascendere lo stato di
Io; anzi, l’Io scompare completamente in quello “stato più elevato”.
Una tale condizione spirituale, priva di Io, può essere per
noi soltanto inconscia per la semplice ragione che non vi sarebbe alcuno a
testimoniare.
Ci rendiamo conto soltanto in via indiretta che esiste un
inconscio.
Il fatto che l’Oriente elimini l’Io con tanta facilità fa
pensare a uno spirito che non può essere identificato col nostro spirito.
Quello orientale sembra meno egocentrico, i suoi contenuti
si riferiscono al soggetto soltanto in modo staccato e sembrano più importanti
quegli stati che presuppongono un Io depotenziato.
Non vi è alcun dubbio che le forme di yoga più elevate
mirino a uno stato spirituale dove l’Io è praticamente dissolto.
La consapevolezza, nel senso che noi diamo alla parola, è
decisamente considerata inferiore, mentre ciò che noi consideriamo
processi oscuri della consapevolezza è
compreso in Oriente come
consapevolezza
superiore.
Così il nostro concetto di
inconscio collettivo sarebbe l’equivalente europeo del
buddhi, lo spirito illuminato.
Gli stati inferiori semifisiologici della psiche sono
dominati per mezzo dell’ascesi, e tenuti così sottocontrollo, e non negati o
repressi mediante il massimo sforzo di volontà, come accade nella sublimazione
occidentale.
Gli strati psichici inferiori vengono pazientemente adattati
per non disturbare la coscienza superiore, questo è ciò che succede in Oriente,
essi arginano l’Io e i suoi desideri dando la maggiore importanza al
fattore soggettivo; intendendo i
recessi oscuri della coscienza,
l’inconscio.
Prendono coscienza dell’oggetto esterno e assimilano la
presa di coscienza a un’immagine preesistente o al concetto per mezzo del quale
l’oggetto è compreso.
Ogni nuova idea sia essa una percezione o un pensiero
spontaneo, risveglia associazioni originate dalle scorte mnemoniche che balzano
prontamente nella coscienza producendo il quadro completo di un’impressione,
benché questo già rappresenti una specie di rappresentazione.
Il fattore soggettivo è costituito in fin dei conti dalle
forme eterne dell’attività psichica, e chiunque faccia assegnamento su di esso
viene ad appoggiarsi sulla realtà delle premesse psichiche.
Se così facendo esso riesce ad estendere la sua coscienza in
profondità in modo da toccare le leggi fondamentali della vita psichica, entra
in possesso della verità che emerge in modo naturale dalla psiche, se questa
nel far ciò non è disturbata dal non psichico mondo esterno.
Noi occidentali crediamo che una verità sia convincente
soltanto quando può essere verificata per mezzo di fatti esterni. Crediamo alla
più precisa osservazione e al più preciso studio sulla natura; la nostra verità
corrisponde al comportamento del mondo esteriore, altrimenti è
soltanto soggettiva.
L’Oriente nonostante la sua posizione introversa, sa
intendersi molto bene col mondo esterno e anche l’Occidente può, nonostante la
sua estroversione consentire alla psiche e alle sue esigenze.
Questi due mondi contrapposti si sono incontrati, l’Oriente
è in piena trasformazione; è stato seriamente perturbato in modo gavido di
conseguenze, e imita con successo perfino i più efficaci metodi europei di
condotta della guerra.
Per quanto ci riguarda, la difficoltà sembra essere
piuttosto psicologica, le ideologie sono il nostro destino, e corrispondono al
lungamente atteso Anticristo.
A dire il vero siamo meglio difesi contri i cattivi
raccolti, le inondazioni, le epidemie di quanto lo siamo contro la nostra
lamentevole inferiorità spirituale, che sembra opporre così scarsa resistenza
alle epidemie psichiche.
Spesso i beni terreni sono considerati una speciale
ricompensa di un comportamento cristiano, è logico che una così ampia
estroversione possa riconoscere all’uomo soltanto una psiche contenente cose
apportatevi dal di fuori per mezzo dell’insegnamento umano o della grazia
divina.
Nulla nella nostra religione incoraggia l’idea della forza autoliberatrice
dello spirito ma c’è una possibilità, riconosciuta dalla psicologia moderna,
che nell’inconscio si svolgano determinati processi che in virtù del loro
simbolismo compensano le deficienze e le confusioni dell’atteggiamento conscio,
causando nell’atteggiamento conscio un tale mutamento che abbiamo il diritto di
parlare di un nuovo livello di coscienza.
E’ così che si arriva allo spirito che crea le immagini, la
matrice di tutte quelle forme originarie che danno all’appercezione il suo
particolare carattere. Queste forme sono proprie della psiche inconscia. La
funzione trascendente non soltanto ci procura l’accesso allo
Spirito Uno, ma ci fa anche comprendere
perché l’Oriente creda nella possibilità dell’autoliberazione. Se mediante
l’introspezione o la percezione conscia dell’esistenza di compensazioni
inconsce riusciamo a trasformare una situazione psichica giungendo alla
soluzione di conflitti dolorosi, ci sentiamo giustificati a parlare di
“autoliberazione”.
L’estroversione va sempre di pari passo con la diffidenza
verso l’uomo interiore, sempre che ci si renda conto di ciò, inoltre abbiamo
tutti la tendenza a sottovalutare le cose che temiamo.
Abbiamo la
nostra assoluta convinzione che
nulla sia nell’intelletto che prima non sia
stato percepito attraverso i sensi, è questo il motto dell’estroversione
occidentale (cosi che si sottovalutano tutti i fenomeni extrasensoriali).
Con lo yoga gli orientali controllano perfino i processi
inconsci così che nella psiche nulla può accadere che non sia guidato da una coscienza
suprema.
Questo stato psicologicamente parlando può accadere solo a
una condizione: occorre diventare identici all’inconscio.
L’equivalenza di questo stato in occidente è l’”obbiettività
assoluta”.
Per il punto di vista orientale questa obbiettività assoluta
è spaventosa perchè equivale a un’ identità completa con il samsara; per
l’Occidente invece non è che uno stato di sogno privo di significato.
In Oriente l’uomo interiore ha sempre avuto un tale potere
sull’uomo esteriore che il mondo non ha mai avuto la possibilità di strappare
questo dalle sue intime radici; in Occidente al
contrario l’uomo esteriore è venuto talmente alla ribalta che si è
estraniato dalla sua natura più interiore. L’unico spirito, l’unità, l’indeterminatezza
e l’eternità furono riservate al Dio unico. L’uomo diventò piccolo e
insignificante, e si trovò sistematicamente dalla parte del torto.
In Occidente abbiamo la mania dell’obbiettività,
l’atteggiamento ascetico dello scienziato o dell’agente di cambio che getta via
la bellezza e l’universalità della vita per una meta più o meno ideale.
In Oriente vi sono la saggezza, pace, distacco e
impassibilità di una psiche ritornata alla sua origine oscura lasciandosi
dietro tutte le preoccupazioni e tutte le gioie della vita qual è e
probabilmente anche quale dev’essere.
Questa unilateralità produce in entrambi i casi forme molto
simili di monachesimo, garantendo all’eremita, al santo, al monaco o allo
scienziato l’indisturbata concentrazione sulla meta da raggiungere.
L’uomo questo grande esperimento della natura (o il suo
proprio grande esperimento), è evidentemente giustificato a simile imprese, se
le può sopportare. Senza unilateralità lo spirito umano non potrebbe
svilupparsi nelle sue differenziazioni, ma il fatto di cercare di compensare i
due punti di vista non può arrecare danno.
La tendenza estroversa occidentale e la tendenza introversa
orientale hanno in comune uno scopo importante; entrambe compiono sforzi
disperati per vincere la nuda natura della vita.
E’ l’affermazione
dello spirito sulla materia, l’
opus
contra naturam, un sintomo della giovialità dell’uomo che si delizia senza
requie nell’uso dell’arma più potente che sia mai stata inventata dalla natura:
lo Spirito Consapevole.