Il concetto di “processo
di individuazione” e l’alchimia sembrano molto distanti l’uno dall’altra,
tanto che al primo momento può sembrare impossibile immaginare un ponte che li
congiunga.
Ma ogni persona che conosca veramente l’anima umana sarà
d’accordo con me se dico essa appartiene ai fenomeni più oscuri e più
misteriosi che si presentano alla nostra esperienza e che nell’anima esista un
processo per così dire indipendente dalle circostanze esterne, indirizzato alla
ricerca di una meta;la ricerca dell’Uomo Totale, l’uomo più grande e futuro.
Ma la via giusta che porta alla totalità è fatta disgraziatamente proprio di strade sbagliate, di strade più lunghe, di aggiramenti fatali.
Si tratta di una lunghissima via; non d’una linea retta, ma serpentina che congiunge gli opposti, linea che ricorda il caduceo indicatore di strade; d’un sentiero che si aggroviglia in un labirinto non privo di orrori.
Su questa strada si formano quelle esperienze che molta gente si compiace di chiamare “difficilmente accessibili”.
La loro inaccessibilità sta nel fatto che sono costose: esigono ciò che si teme di più e cioè la “totalità”, della quale tutti cianciano continuamente e sulla quale si può teorizzare all’infinito, ma dalla quale, nella realtà della vita si gira anche a largo.
Temo che di questo stato di cose non si possano rendere responsabili soltanto l’incoscienza e l’impotenza del singolo , ma anche l’educazione psichica generale dell’uomo.
Al cristianesimo si può rimproverare uno sviluppo arretrato nel tentativo di giustificare la propria insufficienza.
Non parlo dunque del cristianesimo nel suo senso migliore e più intimo bensì di quel fenomeno superficiale e fatal malinteso che noi tutti abbiamo davanti agli occhi.
L’esistenza dell’imitatio Christi, cioè di seguire il modello e diventare simili a Lui, dovrebbe mirare allo sviluppo e all’elevazione dell’uomo interiore, ma viene ridotta dal fedele a un oggetto di culto esteriore: e proprio questa forma di devozione rende impossibile all’imitazione di penetrare nella profondità dell’anima, e ricrearla in quella totalità che corrisponde al modello.
Sì, può succedere anche che Cristo venga imitato fino alla stigmatizzazione, senza che per questo colui che lo imita abbia seguito, anche soltanto in modo approssimativo, il suo esempio e realizzato il suo senso.
Non dobbiamo dimenticare però che perfino l’imitazione mal compresa comporta, in certe occasioni uno sforzo morale immane, il quale benché non permette di raggiungere la meta vera e propria, ha pur tuttavia il merito di costituire una dedizione totale a un valore che pur essendo esteriore, è per altro supremo.
Non è impensabile che qualcuno, proprio in questo suo sforzo totale e in virtù di esso, abbia un barlume, un’intuizione della propria totalità, accompagnata dal sentimento di grazia che è proprio di tale esperienza.
A questa concezione errata dell’ imitatio Christi viene incontro un pregiudizio europeo, che distingue l’atteggiamento occidentale da quello orientale.
L’uomo occidentale è affascinato dalle “diecimila cose” ; vede solo il singolo, è attaccato al suo Io e alle cose, e non ha alcuna coscienza della profonda radice di tutto ciò che esiste.
L’uomo orientale, invece, vive il mondo delle cose singole e persino il proprio Io, come un sogno ed è essenzialmente radicato al fondamento originario il quale lo attrae con tale potenza da fargli relativizzare, in misura che per noi spesso è incomprensibile, la sua appartenenza al mondo.
L’atteggiamento occidentale col suo accento sull’oggetto tende a fissare il “modello” Cristo nel suo aspetto oggettivo, defraudandolo in questo modo del suo rapporto misterioso con l’uomo interiore.
Il Cristo inteso come modello s’è addossato i peccati del mondo.
Ma se il modello rimane del tutto esteriore, anche il peccato del singolo rimane all’esterno, e ciò rende il singolo più frammentato che mai, perché un malinteso superficiale gli offre una comoda via: di “buttare” letteralmente “su di Lui” i suoi peccati e di schivare così la responsabilità più profonda.
Se il valore supremo (Cristo) e la suprema mancanza di ogni valore (peccato) si trovano all’esterno, l’anima è vuota: le mancano l’estrema bassezza e l’altezza suprema. L’atteggiamento orientale procede in senso inverso : altezza e bassezza massima si trovano nel soggetto (trascendentale) stesso. Con ciò l’importanza dell’Atman, del Sé, aumenta a dismisura.
Una proiezione religiosa esclusiva può defraudare l’anima dei suoi valori, tanto che essa, per inanizione, può non continuare a svilupparsi e rimane arenata in uno stato inconscio. Contemporaneamente essa cade in preda all’illusione che tutte le disgrazie si trovino all’esterno, cosi chè si finisce col non chiedersi più quanto e come vi si contribuisca noi stessi. L’anima appare così insignificante che non la si ritiene quasi capace di far del male, e tanto meno del bene.
L’anima non può essere unicamente un “nient’altro che” o un “soltanto”, ma possiede invece la dignità di un ente cui è dato di essere cosciente in rapporto con la divinità. Anche se si tratta unicamente del rapporto di una goccia col mare: nemmeno il mare potrebbe esistere senza la moltitudine di gocce.
L’immortalità dell’anima stabilita dogmaticamente eleva l’anima al di sopra della caducità dell’uomo fisico e la rende compartecipe di una qualità soprannaturale.
La sua importanza sovrasta di moltissimo l’uomo cosciente, mortale, tanto che in fondo dovrebbe essere proibito al cristiano di considerare l’anima un “nient’altro che”.
Come l’occhio al sole, così l’anima corrisponde a Dio. La nostra coscienza non ingloba l’anima, ed è dunque ridicolo parlare dei fatti dell’anima con sufficienza o sminuirli.
Così come il credente non può nemmeno mettere in discussione che esistono somnia a Deo missa (sogni mandati da Dio) e illuminazioni dell’anima che non possono venir ricondotti a nessuna causa esterna. Sarebbe una bestemmia voler sostenere che Dio si può manifestar da per tutto eccezion fatta proprio nell’anima umana.
Questa corrispondenza, consiste nel linguaggio psicologico, nell’archetipo dell’immagine di Dio.
Ogni archetipo è suscettibile di sviluppo e differenziazione infiniti è possibile pertanto che sia più o meno sviluppato.
In una forma religiosa esteriore, in cui tutto l’accento cada sulla figura esteriore(nella quale si tratta dunque di una proiezione più o meno completa), l’archetipo è identico alla rappresentazioni esteriori, rimane però inconscio quale fattore psichico.
Ma se un contenuto inconscio è sostituito a tal punto da un immagine proiettata, è escluso dalla compartecipazione alla vita della coscienza e da ogni influenza attiva su di essa, e ciò va fortemente a scapito della sua vita poiché gli viene impedito di contribuire alla formazione , che gli è naturale, della coscienza, anzi di più: esso rimane immutato nella sua forma originaria, poiché nell’inconscio nulla muta.
Quindi Dio è “tutto fuori” e non fa nell’anima un’esperienza viva.
I grandi avvenimenti del nostro mondo, che son voluti e provocati dagli uomini, non respirano lo spirito del cristianesimo, bensì quello di un paganesimo rozzo. Vi è all’origine di ciò una condizione psichica rimasta arcaica che non è stata sfiorata nemmeno lontanamente dal cristianesimo.
La cultura cristiana ha dimostrato di essere spaventosamente vuota, una vernice esterna; l’uomo interiore non è stato raggiunto ed è quindi rimasto inalterato. Lo stato dell’anima non corrisponde a ciò che viene creduto esteriormente.
Il cristiano non ha camminato con la sua anima di pari passo con lo sviluppo esteriore. Esternamente c’è tutto, in immagini e in parole, nella Chiesa e nella Bibbia; interiormente non c’è nulla.
E’ vero che l’educazione cristiana ha fatto quanto era umanamente possibile, ma in misura insufficiente. Troppo pochi hanno vissuto l’immagine divina come la proprietà più intima dell’anima. Hanno incontrato un Cristo soltanto all’esterno: nessun Cristo è venuto ad essi incontro dalla loro anima.
Il cristianesimo deve necessariamente ricominciare da capo, se vuole adempiere al suo alto compito educativo.
Finchè la religione rimane soltanto fede esterna e forma esterna, finchè la funzione religiosa non diventa una funzione della nostra anima, nulla di fondamentale è successo.
“Quando però dimostro che per sua natura l’anima possiede una funzione religiosa, e quando postulo che il compito principale e più nobile di ogni educazione (degli adulti) consiste nel portare alla coscienza l’archetipo dell’immagine divina, o le sue emanazioni e i suoi effetti, ecco che proprio allora la teologia mi ferma la mano e mi accusa di “psicologismo”.
Se non si sapesse per esperienza che nell’anima si trovano valori supremi, la psicologia non mi interesserebbe un bel nulla, poiché non sarebbe altro un misero fumo.
Mi hanno rimproverato di deificare l’anima. non io ma Dio stesso l’ha deificata.”
Nel loro stato davvero tragico di accecamento, questi teologi non comprendono che non si tratta di dimostrare l’esistenza della luce, bensì del fatto che esistono ciechi quali non sanno che i loro occhi potrebbero vedere.
Con l’andar del tempo bisognerebbe una buona volta accorgersi che lodare e predicare la luce non serve a nulla, se non c’è nessuno che possa vederla.
Se affermo che Dio è un archetipo, intendo con ciò il “tipo” che si trova nell’anima.
“Tipo” deriva notoriamente da colpo impronta. La parola “archetipo” presuppone un soggetto che dia l’impronta, che imprima.
Noi semplicemente non sappiamo da dove infondo far derivare l’archetipo, proprio come non conosciamo l’origine dell’anima.
La completezza della psicologia come scienza empirica arriva soltanto al punto di stabilire, sulla base della ricerca comparativa, se il “tipo” trovato nell’anima può giustificatamente esser chiamato, per esempio, “immagine di Dio”, oppure no.
Con ciò non si enuncia nulla a proposito di una possibile esistenza di Dio, né in senso positivo né in senso negativo, così come l’archetipo dell’eroe non implica l’esistenza di un eroe.
Non ci si è ancora accorti che tutte le enunciazioni religiose contengono contraddizioni logiche e asserzioni impossibili per principio anzi, che proprio questo costituisce l’essenza delle asserzioni religiose?
Tertulliano ha ben ammesso (De carne Christi, 11.5):”E morto è il figlio di Dio, e questo è credibile proprio perché è assurdo. E sepolto e risorto: e questo è certo perché è impossibile”.
Se il cristianesimo invita a credere a tali contraddizioni, non può, mi sembra, disapprovare chi dia diritto d’esistenza a qualche altro paradosso in più.
Stranamente il paradosso appartiene ai beni spirituali più preziosi; l’univocità è segno di debolezza. Per questa ragione una religione impoverisce nel suo intimo quando perde o diminuisce i suoi paradossi; se invece li aumenta, diventa più ricca, poiché solo il paradosso è capace di abbracciare, anche se soltanto approssimativamente la pienezza della vita; mentre ciò che è univoco, che non ha contraddizioni, è unilaterale, e quindi inadatto ad esprimere l’inafferrabile.
Dai tempi dell’illuminismo francese, le cose sono andate rapidamente peggiorando; poiché quando queste menti, che non tollerano il paradosso si svegliano, non c’è predica che possa zittirle.
Allora si presenta un compito nuovo: quello cioè di portare lentamente questa ragione non sviluppata a un livello superiore, e di aumentare il numero di coloro che sono capaci di avere almeno una vaga intuizione della portata di una verità paradossale.
Dove ciò non è possibile, l’accesso spirituale al cristianesimo può considerarsi bloccato: semplicemente non si è più in grado di capire ciò che i paradossi del dogma possano significare, quanto più esteriore diventa il modo di concepirli, tanto più ci si formalizza per loro veste irrazionale.
E’ un fatto del quale la persona che ne è colpita non si può render conto: non ha mai fatto l’esperienza viva che le immagini sacre sono una sua intima ricchezza, e non ha mai saputo della loro affinità con la propria struttura psichica. Ma è proprio questa conoscenza imprescindibile che può essere offerta dalla psicologia dell’inconscio.
Ciò che l’inconscio esprime non è né arbitrarietà né un’opinione, bensì un accadimento, un “esser-così”, al pari di qualsiasi essere naturale.
Le qualità paradossali del concetto corrispondono al fatto che la totalità è composta da un lato dall’uomo cosciente, dall’altro dall’uomo inconscio.
Di quest’ultimo però non si possono indicare né i limiti né le determinazioni.
Nella terminologia scientifica il Sé non rinvia dunque né a Cristo né a Buddha, bensì alla totalità delle figure corrispondenti, ognuna delle quali è un simbolo del Sé.
Per la psicologia, il “simbolo di Cristo” ha un’importanza estrema, in quanto esso è forse, assieme alla figura del Buddha, il simbolo più altamente sviluppato e differenziato del Sé.
Il Sé non è soltanto indeterminato ma paradossalmente, contiene anche il carattere della determinazione, addirittura dell’unicità.
E’ questa probabilmente una delle ragioni per cui proprio quelle religioni che hanno per fondatori personalità storiche, si sono estese al mondo intero, come il cristianesimo il buddhismo, l’islamismo;
Il fatto di includere la personalità umana nella sua unicità , e congiunta alla natura divina non determinabile corrisponde all’elemento assolutamente individuale del Sé, il quale unisce all’eterno fenomeni che si verificano una sola volta e il singolare con quanto vi è di più generale.
Il Sé è l’unione dei contrari
L’androginia di Cristo è l’estrema concessione che la Chiesa abbia fatto alla problematica dei contrari .La contrapposizione di chiaro e buono da un lato e di oscuro e cattivo dall’altro, fu lasciata nel suo stato di aperto conflitto.
Questo contrasto è il vero problema universale non ancora risolto.
Il Sé comunque è paradossalità assoluta poiché rappresenta sotto ogni riguardo tesi e antitesi e contemporaneamente sintesi.
L’archetipo che l’esplorazione dell’inconscio alla coscienza, pone dunque a confronto l’individuo con la contraddittorietà abissale della natura umana, dandogli in questo modo la possibilità di un’esperienza assolutamente immediata di luce e tenebre di Cristo e diavolo.
L’esperienza dei contrari si potrebbe piuttosto chiamare un destino. Una tale esperienza può dimostrare all’uno la verità di Cristo, all’altro la verità del Buddha fino all’evidenza estrema.
Senza esperienza dei contrari non esiste esperienza della totalità.
Il cristianesimo insiste giustificatamente sulla peccaminosità e sul peccato originale, con l’intenzione manifesta di riaprire in ogni singolo, almeno dall’esterno, l’abisso dell’antiteticità del contrasto universale.
Nel Sé il bene e il male sono più uniti di due gemelli omozigoti. La realtà del male e la sua incompatibilità col bene scindono gli elementi contrari e portano inesorabilmente alla crocifissione e alla sospensione di tutto ciò che è vivo.
Poiché l’anima è naturaliter cristiana, questa conseguenza dovrebbe verificarsi con la stessa necessità con la quale s’è verificata nella vita di Cristo.
Noi tutti dovremmo essere “crocifissi con Cristo”, cioè vivere in una sofferenza morale corrispondente alla crocifissione vera e propria.
Una reazione palliativa contro questo stato è costituita da quel “probabilismo morale” il cui compito è di evitare che l’anima venga schiacciata dal senso del peccato (l’uomo si regola in atti di autodecisione morale, secondo ciò che è probabilmente giusto, raccomandato da qualche autorità sia esemplare sia dottrinale).
Il simbolismo cristiano lascia aperto il conflitto bene/male. Per il simbolismo cristiano c’è una “faglia” che attraversa il mondo: la luce lotta contro la notte, ciò che è sopra contro ciò che è sotto. Questi Due non sono Uno come nell’archetipo psichico. Benché il dogma aborra dall’idea che il Due sia Uno, pure abbiamo visto, la pratica religiosa rende possibile la realizzazione approssimativa del simbolo psicologico naturale, cioè del Sé unificato in se stesso. Il dogma insiste sul fatto che il Tre è Uno, ma non ammette che sia Uno il Quattro.
E’ noto che i numeri dispari, fin dall’antichità e non soltanto da noi in Occidente ma anche in Cina, sono maschili, quelli pari invece sono femminili.
Donde il fatto che la Trinità è una divinità esplicitamente maschile, di cui l’androginia del Cristo e la particolare posizione e la venerazione attribuite alla Madre di Dio non costituiscono il pieno equivalente.
Con questa costatazione arriviamo a un assioma centrale dell’alchimia, e precisamente all’assioma di Maria Prophetissa: “L’Uno diventa il Due, i Due diventano Tre, e per mezzo del Terzo, il Quarto compie l’Unità”.
L’importanza dell’alchimia per la storia della chimica è ovvia. Viceversa, la sua importanza per la storia dello spirito è ancora così sconosciuta che sembra quasi impossibile indicare in poche parole in che cosa essa consista.
L’alchimia forma una sorta di corrente sotterranea di quel cristianesimo che regna alla superficie.
Il rapporto tra alchimia e cristianesimo è equivalente a quello tra sogno e coscienza, e come il sogno compensa i conflitti della coscienza, così l’alchimia tende a colmare quelle lacune che la tensione dei contrari presente nel cristianesimo, ha lasciate aperte.
Qui tra le cifre dispari del dogmatismo cristiano si inseriscono le cifre pari che denotano l’elemento femminile, la terra, l’elemento sotterraneo, il male stesso.
La loro personificazione è il serpens mercurii, il drago che genera sè stesso e distrugge sè stesso, e che rappresenta la prima materia.
La coscienza in senso maschile è compensata dall’elemento ctonio-femminile dell’incoscio.
L’inconscio non ha sempre un rapporto di contrasto con la coscienza , ma si comporta nei suoi riguardi come un avversario o un compagno di gioco che in misura più o meno grande la modifica.
Il “tipo” del figlio non evoca come immagine complementare dall’inconscio “ctonio” una figlia, bensì parimenti un figlio; l’incarnazione del Dio puramente spirituale nella natura umana terrestre, incarnazione resa possibile dalla generazione dello Spirito Santo ne grembo della Beata Vergine. Così il superiore, lo spirituale, il maschile si protende verso l’inferiore, il terrestre, il femminile.
Analogamente Madre Terra, la madre anteriore al mondo paterno, viene incontro aqll’elemento maschile e per mezzo dello strumento dello spirito umano (la “filosofia”) procrea un figlio: non l’opposto di Cristo, bensì il suo equivalente ctonio, non un uomo dio bensì un uomo favoloso conforme alla natura della madre primordiale.
E come al figlio superiore spetta il compito della redenzione dell’uomo (del microsmo), così il figlio inferiore ha il significato di un salvator macrocosmi.
Cosi il Filius philosofhorum non è affatto un mero riflesso del figlio di Dio in una materia impropria; al contrario, questo figlio della Tiàmat mostra i tratti della figura primordiale materna. Benché sia decisamente ermafrodito, ha un nome maschile e tradisce così la tendenza che ha il mondo degli inferi ctonio, rifiutato dallo spirito e identificato senza troppe cerimonie col male, a venire a patti: non si può misconoscere che egli rappresenta una concessione all’elemento spirituale e maschile, benché porti in se il peso della terra e la favolosità dell’animalità primordiale.
Nell’alchimia si tratta particolarmente del germe dell’unità che giace nascosto nel caos della Tiàmat e che costituisce l’equivalente dell’unità divina.
Come questa, esso ha carattere trinitario nell’alchimia influenzata dal cristianesimo, triadico nell’alchimia pagana. Secondo altre testimonianze esso corrisponde all’unicità dei quattro elementi, e forma dunque una quaternità.
Il numero Tre infatti non è un’espressione naturale della totalità, poiché il numero minimo delle determinanti di un giudizio totale è rappresentato dal Quattro.
Nell’alchimia esistono quattro e tre regimina (procedimenti), quattro e tre colori. Ci sono sempre, è vero, quattro elementi; ma spesso sono tre raggruppati e uno, ora la terra, ora il fuoco, ha una posizione particolare. E’ vero che il Mercurius è quadratus, però è anche un serpente tricefalo o semplicemente una triunità. Questa incertezza è indizio di un tanto l’uno quanto l’altro; ossia le rappresentazioni centrali sono tanto quaternarie quanto ternarie.
L’incertezza tra Quattro e Tre significa un oscillare tra spirituale e fisico.
Si verifica da qui la produzione dei simboli dell’unità, i mandala, i quali si manifestano o in sogno, o durante la veglia, in forma di impressioni visive, di immagini, spesso anche come un’evidentissima compensazione della contraddittorietà e della conflittualità della situazione cosciente.
Sarebbe inesatto dire che nell’ordine universale cristiano di ciò sia responsabile il fatto che la “faglia”, il divario, rimane aperto, poiché è facile dimostrare come il simbolo cristiano guarisca, o si sforzi di guarire , proprio questa ferita. Sarebbe più corretto vedere questo rimanere aperto del conflitto come un sintomo della situazione psichica dell’uomo occidentale, e deplorare la sua capacità di accogliere in sé tutta la vastità del simbolo cristiano.
L’esperienza più alta e decisiva è il trovarsi soli con il proprio Sé, o qualsiasi altro nome si voglia dare all’oggettività dell’anima.
Da principio la via che porta alla meta è caotica e indiscernibile; soltanto gradualmente aumentano gli indizi di una direzione verso la meta.
La via non è rettilinea, ma apparentemente ciclica, come una spirale.
I sogni in quanto manifestazioni di processi inconsci gravitano o si muovono in cerchio attorno al centro, e si avvicinano a questo con amplificazioni sempre più chiare e più vaste.
Tra questo percorso a spirale e la crescita delle piante si potrebbe stabilire un parallelismo, tanto più che il motivo della pianta (albero, fiore, ecc) ricorre frequentemente in questi sogni e fantasie, e viene rappresentato anche spontaneamente con disegni.
Nell’alchimia l’albero è il simbolo della filosofia ermetica.
Lo sviluppo di questi simboli è per così dire equivalente al processo di guarigione, il centro o la meta ha dunque nel vero senso della parola il significato di “salute”.
Da qui deriva il confronto con la propria Ombra, con quella parte oscura dell’anima della quale ci si sbarazza mediante le proiezioni.
Si sa, e vero, che senza peccato non esiste pentimento e senza pentimento non esiste la grazia redentrice, anzi persino che senza il peccato originale l’atto della redenzione universale non si sarebbe mai potuto produrre. Ma si tralascia premeditatamente di esaminare se non sia insita proprio nella potenza del male una particolare volontà divina che si avrebbe tutte le ragioni di prendere in considerazione.
Non esiste nessuna verità che non si significhi redenzione per gli uni, e seduzione e veleno per gli altri.
Chi conduce una lotta estenuante e disperata contro il Destino, vi vedrà piuttosto il demonio.
A lunga scadenza anche la giusta azione avrà effetti nefasti in mano all’uomo sbagliato.
Chi sa vedere lontano, si farà altrettanto poco abbagliare dall’azione giusta della persona sbagliata quanto dall’azione sbagliata dalla persona giusta dirigendo l’attenzione non al “cosa” bensì al “come” dell’azione perché in esso è compresa tutta l’essenza della persona che agisce.
Il male esige di essere pinderato tanto quanto il bene, perché bene e male non sono altro che prolunganti ideali e astrazioni dell’agire, e appartengono tutti e due al chiaroscuro della vita.
In fondo non esiste alcun bene dal quale non possa sorgere un male e nessun male dal quale non possa sorgere un bene.
Se Cristo ha preso le parti del peccatore e non lo ha condannato, se si vorrà essere veri imitatori di Cristo si dovrà fare lo stesso, e poiché non si dovrebbe fare all’altro ciò che non si fa a noi stessi, si prenderanno le parti anche, e prima di tutto, di quel peccatore che siamo noi stessi.
Con l’amore si migliora, con l’odio si peggiora: anche noi stessi.
Si tratta particolarmente dei residui dello spirito antico e dell’antico sentimento della natura che non potevano venir estirpati, e che finirono col trovare asilo nella filosofia della natura del Medioevo.
Come spiritus metallorum e come componenti del destino in astrologia, gli antichi dèi planetari sopravvissero a molti secoli cristiani.
Mentre nella chiesa la differenziazione crescente del rito e del dogma allontanava la coscienza dalle radici naturali che essa ha nell’inconscio, l’alchimia e l’astrologia erano occupate ad evitare che il ponte di congiunzione con la natura, cioè l’anima inconscia, cadesse in rovina.
L’astrologia non faceva che ricondurre sempre nuovamente la coscienza a riconoscere la heimarmene, cioè la dipendenza del carattere e del destino da determinati momenti temporali; l’alchimia dava sempre nuovamente occasione di proiettare quegli archetipi che non potevano inserirsi senza attrito nel processo cristiano.
Indubbiamente , per molti alchimisti l’aspetto allegorico aveva una tal preminenza da farli vivere nella convinzione incrollabile di aver a che fare soltanto con corpi chimici.
Ce ne erano però sempre altri ai quali ciò che importava nel loro lavoro di laboratorio erano il “simbolo” e il suo effetto psichico.
Il loro lavoro con la materia era, è vero, un serio tentativo di penetrare nell’essenza delle trasformazioni chimiche, però era anche, e spesso in misura ponderante, la rappresentazione di un processo” psichico” ; “Aurum nostrum non est aurum vulgi”
La Chiesa aspirava a salvare gli alchimisti, offrendo loro nelle sue rappresentazioni dogmatiche analogie di quello stesso processo, analogie che però in stretto contrasto con l’alchimia , erano scisse dal legame con la natura, in quanto si ricollegavano alla figura storica del Redentore.
Quell’unità dei Quattro, quell’ Oro Filosofico, quel Lapis Angularis, quell’ Acqua divina, erano nella Chiesa la croce a quattro braccia, sulla quale l’Unigenito si era sacrificato storicamente una volta, e contemporaneamente per tutta l’eternità.
Le rappresentazioni centrali cristiane hanno le loro radici in quella filosofia gnostica che per legge psicologica doveva svilupparsi proprio quando le religioni classiche cominciavano a diventare obsolete.
Essa è basata sulla percezione dei simboli del processo di individuazione inconscio, il quale si mette in moto sempre quando le rappresentazioni collettive superiori che dominano la vita umana cominciano a sgretolarsi.
Esiste un certo tipo di persone che a questo punto vengono “afferrate”, “possedute” dagli archetipi numinosi i quali per creare dominanti nuove, premono verso la superficie.
Coloro che vengono “afferrati” si identificano con i loro stessi contenuti archetipici, e li incarnano in modo esemplare nelle loro vite, e ciò fa di essi dei p0rofeti e riformatori.
Fu così che Gesù divenne l’immagine protettrice contro tutte le potenze archetipiche che minacciavano di possedere tutti.
La lieta novella annunciava”E’ accaduto, non vi accadrà più, a condizione che crediate in Gesù, nel Figlio di Dio” poteva invece accadere, e può accadere e accadrà a ognuno, qualora si disgreghi la dominante cristiana.
Così ci furono persone che non si accontentavano della dominante della vita cosciente ma si misero in cerca di quell’esperienza originaria delle radici eterne e, soggiogate dal fascino dell’inconscio inquieto, “si avviarono verso quel deserto dove, come Gesù, si imbatterono nel figlio delle tenebre”.
L’esperienza della Nigredo, nella prima fase dell’opera, che veniva sentita come melancholia, e che corrisponde psicologicamente all’incontro con l’Ombra.
La problematica dei contrari sollevata dall’Ombra ha una sua parte grande e decisiva nell’alchimia, poiché questa conduce, nella fase ultima dell’opera, all’unione dei contrari nella forma archetipica dello hieros gamos, delle “nozze chimiche”. In queste, i contrari supremi nella forma del maschile e del femminile, come nello Yang e nello Yin cinesi, si fondono in un’unità che non contiene più opposizioni, e che è dunque incorruttibile.
L’alchimista era obbligato a rappresentare la sostanza incorruttibile come corpo chimico; un’impresa impossibile che finì col provocare la rovina dell’alchimia da laboratorio, al posto della quale subentrò la chimica. La parte psichica dell’opera però non sparì, ma si conquistò nuovi interpreti, come vediamo dall’esempio del Faust e del rapporto, ricco di significato, esistente tra la moderna psicologia dell’inconscio e il simbolismo alchimistico.
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