" A questo punto si impone alla mia attenzione il fatto che accanto al dominio della riflessione vi è un altro campo, ugualmente o anche più esteso, nel quale la comprensione razionale e i modi razionali di rappresentazione possono ben poco.
Si tratta del dominio dell'Eros.
Nei tempi antichi Eros era significativamente considerato un dio la cui divinità trascendeva i limiti umani, e che pertanto non poteva essere compreso o rappresentato in alcun modo.
Potrei anch'io tentare, come molti prima di me, di avvicinarmi a questo demone, la cui potenza si estende dagli spazi infiniti del cielo agli oscuri abissi dell'inferno; ma esito di fronte al compito di trovare le parole che possano adeguatamente esprimere gli incalcolabili paradossi dell'amore.
Eros è un kosmogonos, creatore e padre-madre di ogni coscienza.
Mi sembra che il condizionale di Paolo "Se non avessi l'amore" sia il primo di tutti i riconoscimenti e l'essenza della divinità stessa.
Quale che sia l'interpretazione che i dotti danno della frase "Dio è amore", il tenore delle parole conferma che la divinità è una complexio oppositorum.
Sia nella mia esperienza di medico che nella mia vita, mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero del l'amore, e non sono mai stato capace di spiegare che cosa esso sia.
Come Giobbe, ho dovuto mettere "la mia mano sulla mia bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò più" (Giobbe, XL, 4 sg.).
Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare di uno senza considerare anche l'altro.
Non c'è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto.
Parlare di aspetti parziali è sempre troppo o troppo poco, perché soltanto il tutto ha significato.
L'amore "soffre ogni cosa" e "sopporta ogni cosa" (I Cor., XIII, 7).
Queste parole dicono tutto ciò che c'è da dire; non c'è nulla da aggiungere.
Perché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime o i mezzi e gli strumenti dell'"amore" cosmogonico. Pongo la parola tra virgolette per indicare che non la uso nei suoi significati di brama, preferenza, favore, desiderio, e simili, ma come un tutto superiore a una singola cosa, unico e indivisibile.
Essendo una parte, l'uomo non può intendere il tutto.
È alla sua mercé.
Può consentire con esso, o ribellarsi; ma sempre ne è preda e prigioniero.
Ne dipende e ne è sostenuto.
L'amore è la sua luce e le sue tenebre, la cui fine non può riuscire a vedere.
"L'amore non vien mai meno", sia che parli con la "lingua degli angeli", o che, con esattezza scientifica, tracci la vita della cellula risalendo fino al suo ultimo fondamento.
L'uomo può cercare di dare un nome all'amore, attribuendogli tutti quelli che ha a disposizione, ma sarà sempre vittima di infinite illusioni.
Se possiede un granello di saggezza, deporrà le armi e chiamerà l'ignoto con il più ignoto, ignotum per ignotius, cioè con il nome di Dio.
Sarà una confessione di imperfezione, di dipendenza, di sottomissione, ma al tempo stesso una testimonianza della sua libertà di scelta tra la verità e l'errore ".
Si tratta del dominio dell'Eros.
Nei tempi antichi Eros era significativamente considerato un dio la cui divinità trascendeva i limiti umani, e che pertanto non poteva essere compreso o rappresentato in alcun modo.
Potrei anch'io tentare, come molti prima di me, di avvicinarmi a questo demone, la cui potenza si estende dagli spazi infiniti del cielo agli oscuri abissi dell'inferno; ma esito di fronte al compito di trovare le parole che possano adeguatamente esprimere gli incalcolabili paradossi dell'amore.
Eros è un kosmogonos, creatore e padre-madre di ogni coscienza.
Mi sembra che il condizionale di Paolo "Se non avessi l'amore" sia il primo di tutti i riconoscimenti e l'essenza della divinità stessa.
Quale che sia l'interpretazione che i dotti danno della frase "Dio è amore", il tenore delle parole conferma che la divinità è una complexio oppositorum.
Sia nella mia esperienza di medico che nella mia vita, mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero del l'amore, e non sono mai stato capace di spiegare che cosa esso sia.
Come Giobbe, ho dovuto mettere "la mia mano sulla mia bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò più" (Giobbe, XL, 4 sg.).
Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare di uno senza considerare anche l'altro.
Non c'è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto.
Parlare di aspetti parziali è sempre troppo o troppo poco, perché soltanto il tutto ha significato.
L'amore "soffre ogni cosa" e "sopporta ogni cosa" (I Cor., XIII, 7).
Queste parole dicono tutto ciò che c'è da dire; non c'è nulla da aggiungere.
Perché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime o i mezzi e gli strumenti dell'"amore" cosmogonico. Pongo la parola tra virgolette per indicare che non la uso nei suoi significati di brama, preferenza, favore, desiderio, e simili, ma come un tutto superiore a una singola cosa, unico e indivisibile.
Essendo una parte, l'uomo non può intendere il tutto.
È alla sua mercé.
Può consentire con esso, o ribellarsi; ma sempre ne è preda e prigioniero.
Ne dipende e ne è sostenuto.
L'amore è la sua luce e le sue tenebre, la cui fine non può riuscire a vedere.
"L'amore non vien mai meno", sia che parli con la "lingua degli angeli", o che, con esattezza scientifica, tracci la vita della cellula risalendo fino al suo ultimo fondamento.
L'uomo può cercare di dare un nome all'amore, attribuendogli tutti quelli che ha a disposizione, ma sarà sempre vittima di infinite illusioni.
Se possiede un granello di saggezza, deporrà le armi e chiamerà l'ignoto con il più ignoto, ignotum per ignotius, cioè con il nome di Dio.
Sarà una confessione di imperfezione, di dipendenza, di sottomissione, ma al tempo stesso una testimonianza della sua libertà di scelta tra la verità e l'errore ".
Tratto da "Ricordi sogni riflessioni" Carl Gustav Jung
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